La bellezza del Creato ricolma gli occhi di stupore e richiama alla comune riflessione pedagogica su pratiche educativo-ambientali e responsabilità sociale, con particolare riferimento alla sostenibilità ambientale.
Inno alla Bellezza
Ammirare la bellezza, non è un piacere solo esteriore, è, più in profondità, lo sguardo dell’anima che penetra il mistero. Meglio ancora, lasciarsi raggiungere dal mistero nascosto nella realtà, come testimoniava Etty Hillesum che, nelle terribili condizioni di vita del campo di smistamento di Westerbork, sapeva gioire del cielo azzurro riflesso dalle pozzanghere fangose della baraccopoli.
Cantare la bellezza è capacità che è dono e conquista paziente di chi ha saputo cogliere il significato della vita e del creato anche nei momenti più cruciali: “non esistono forse altre realtà, oltre a quella che si trova sui giornali […]? Esiste anche la realtà del ciclamino rosa e del grande orizzonte che si può sempre scoprire dietro il chiasso e la confusione di questo tempo”.
Generare la bellezza è opera di fine artista concepita da un seme accolto e nutrito dall’acqua dello spirito: “In me non c’è un poeta, in me c’è un pezzetto di Dio che potrebbe farsi poesia. In un campo deve pur esserci un poeta che da poeta viva anche quella vita e la sappia cantare”.
Avvolgersi di bellezza è credere in essa e portarla agli altri in ogni piega del dramma umano: “la vita è bella. E credo in Dio. E voglio stare in mezzo ai cosiddetti ‘orrori’ e dire ugualmente che la vita è bella. […]. Se solo potessi andare in giro tra quelle migliaia di uomini ammassati laggiù e potessi offrire un sorso d’acqua ad alcuni di loro”. Vorrei “essere un balsamo per molte ferite”.
Credere che la bellezza può salvare il mondo significa “avere il coraggio di guardare in faccia ogni dolore” e, alla fine di ogni giornata, saper dire” voglio tanto bene agli uomini”; significa provare sempre “amore per come degli uomini siano capaci di sopportare il dolore per impreparati che ne fossero, dentro di sé”.
Celebrare la bellezza è, infine, cadere in ginocchio con l’abbandono di un bambino nelle braccia di suo padre: “credo di poter sopportare e accettare ogni cosa di questa vita e di questo tempo. E quando la burrasca sarà troppo forte e non saprò come uscirne, mi rimarranno sempre due mani giunte e un ginocchio piegato. […] Come è strana la mia storia – la storia della ragazza che non sapeva inginocchiarsi. O con una variante: della ragazza che aveva imparato a pregare”.
(dal Diario di Etty Hillesum)